Non si può pretendere di parlare della cucina tipica calabrese, senza accennare all’antichissimo rito della maialatura, che sembra abbia origine nei tempi lontanissimi della Magna Grecia. “Amaru chi lu puorcu nun s’ammazza, a li travi sui nun mpica sazizza “- Triste colui che non ammazza il maiale, alle travi di casa sua non appende salsicce. Questa è una delle tradizioni nate, senza dubbio, dalla necessità di approvvigionarsi una certa quantità di carne conservabile per tutto l’anno, facilmente accessibile e con bassissimo rischio di degradazione nel tempo. Il periodo migliore per ammazzare il maiale era quello di gennaio/febbraio che, rappreentando notoriamente il momento più freddo, risultavano i più adatti alla manipolazione e conservazione delle carni.

Ogni famiglia allevava il proprio maiale dandogli da mangiare la “vrodata”, una sorta di brodaglia composta da tutti gli avanzi di cucina, da scarti dell’orto e dall’acqua che era servita per la cottura della pasta e con cui si era data una prima lavata alle stoviglie del pranzo e della cena. La “vrodata” era integrata con castagne selvatiche, lo scarto delle castagne coltivate, le ghiande e tutto ciò che di commestibile non poteva comunque essere destinato al consumo umano. Allevato in questo modo, l’animale in alcuni casi riusciva a raggiungere anche i 200 kg di peso. Un maiale, quindi, molto diverso da quelli allevati oggi all’insegna della magrezza. Ma chi di noi oggi mangerebbe una bistecca di maiale con tre dita di grasso intorno?

In alcuni casi la famiglia dava in “affidamento” il proprio maiale ad un’altra famiglia, impegnandosi però a fornire tutto il cibo per il suo  allevamento, compresa la “vrodata”. La famiglia affidataria alla fine veniva ricompensata in natura con alcuni prodotti della maialatura. Un baratto che consentiva anche alle famiglie più povere, di avere una piccola provvista di carne.

Il momento della maialatura era un rito ed una vera e propria festa, che riuniva parenti, compari-comari e amici. Si collaborava aiutandosi uno con l’altro, in una cooperazione vincente che permetteva alla fine, a quasi tutte le famiglie del paese, di avere ognuna la sua bella scorta di “sazizze mpicate a li travi”, ovvero salsicce appese alle travi.
Dopo un anno di allevamento, l’animale veniva sgozzato da una persona esperta e issato a testa in giù in modo da recuperare il sangue che fuoriusciva copioso dal taglio. Una parte di questo sangue veniva girato continuamente per impedirgli di coagulare e usato per fare il sanguinaccio dolce, un composto cremoso di sangue di maiale, pinoli, uvetta, cioccolato. Un’altra parte si lasciava coagulare, si tagliava  in pezzi grossolani e si cucinava soffriggendolo in padella con abbondante cipolla.

Del maiale non si buttava niente. Con la pelle si facevano le “frittole”, strisce di cotenna dalle quali si eliminavano i peli raschiandole con l’ausilio dell’acqua bollente; anche i peli venivano raccolti e usati da alcune piccole industrie per la realizzazione di pregiati pennelli. Le “frittole” lessate al dente col sale, venivano poi conservate dentro allo strutto nei “salaturi”. Mangiarle durante l’anno insieme ai legumi, era una vera festa.

L’intestino serviva per insaccare le salsicce, la ‘nduja, e la regina degli insaccati calabresi: la soppressata calabrese. Fatta con un impasto in un rapporto ben preciso tra carne magra e grassa, aveva e ha la particolarità di essere costituita da carni scelte come coscio, filetto, spalla. Per fare le soppressate si rinuncia quindi al prosciutto.
Dicevamo che del maiale nulla veniva buttato, persino il diaframma parietale, allora come ora, serviva per la protezione del capocollo durante la sua stagionatura. Il capocollo è un muscolo cervicale molto pregiato che veniva disossato, pressato, salato, aromatizzato e stagionato per non meno di 15 settimane. Anche questo salume per fortuna è arrivato fino a noi.

In un pentolone di rame, ”la quadara”, venivano fatte bollire per ore ed ore le parti grasse ricavandone così lo strutto e gli sfrizzoli, pezzettini di tessuto connettivale che si dividevano dalle parti grasse galleggiando in superficie. Questi venivano poi conservati nello strutto per essere usati durante l’anno per la preparazione di molti piatti. Tra questi ricordiamo una speciale pizza realizzata con la pasta del pane impastata insieme agli sfrizzoli. Con la testa disossata e fatta bollire per molte ore, si ricavava la gelatina che, aromatizzata con foglie d’alloro ed aceto, diventava un secondo piatto molto appetitoso e stuzzicante.

Un altro insaccato che si preparava e che ancora oggi allieta le nostre tavole, era la ‘nduja, un insaccato cremoso di origini incerte costituito da frattaglie, lardo e grande quantità di peperoncino macinato.
Oggi questo insaccato è stato nobilitato e per la sua preparazione viene utilizzato il lardello del sottopancia misto a carne scelta di coscio e di spalla insieme ovviamente a una grande quantità di peperoncino essiccato e macinato. Anche la ‘nduja , come il capocollo e la soppressata, gode della certificazione DOP e non è esagerato dire che ‘nduja vuol dire Calabria.

La maialatura durava 3-4 giorni. Alla fine era stata indubbiamente una fatica immane, ma è facilmente intuibile la soddisfazione di tutta quella gente che, pur a costo di grande sacrificio, si era assicurata una sopravvivenza meno grama, messa a dura prova ogni giorno, dalle ristrettezze economiche dell’epoca. Avere la cantina piena zeppa di salsicce, lardo, guanciale, capocollo, soppressate, gelatina, sfrizzoli, pancetta, frittole, sanguinaccio, salami, prosciutti, ‘nduja, era la garanzia di poter trascorrere l’anno senza dover patire la fame e con la certezza di essersi assicurati un’alimentazione in cui erano prevista anche le proteine animali.

Ovviamente, l’ usanza della maialatura è andata nel tempo quasi scomparendo; oggi le esigenze sono cambiate, i bisogni sono diversi, ma molte donne calabresi continuano ancora, nelle loro cucine ultramoderne, a portare avanti qualcosa di quella tradizione. Ancora oggi, infatti, è in uso comprare dal macellaio di fiducia della carne di maiale fresca e scelta, per preparare capocolli, soppressate,’nduja, guanciale, pancetta, lardo. Un modo per rimanere ancorati alle tradizioni, per tenere vivo un mondo che va scomparendo e soprattutto per tramandare ai propri figli i valori di una cultura antica fatta di cose semplici ed essenziali.

Se non si ha la fortuna di avere parenti o amici calabresi, non si conosceranno mai certi sapori autentici ed inimitabili, come quello del capocollo o delle soppressate fatte in casa, dove gli unici conservanti continuano ad essere: igiene durante la lavorazione, peperoncino essiccato al sole di Calabria e macinato, metodica appropriata ed anche un grande amore per le proprie origini. Tuttavia, è possibile acquistare dei prodotti di qualit nei negozi specializzati o provare a realizzare in casa alcune di queste specialità.

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