Difficile da credere, ma è proprio così: il maiale nero di Calabria è stato premiato con il premio Medusa edizione 2015 presso l’Aula Magna del Policlinico Umberto I come prodotto italiano migliore dell’anno per le sue peculiarità salutistiche. No, non è uno scherzo, stiamo parlando proprio di maiale, ma di quello nero calabrese che – rispetto agli altri – ha delle caratteristiche che lo rendono più salutare, in quanto più povero di grassi saturi e più ricco di quelli insaturi.

In Calabria l’allevamento del maiale è sempre stato molto diffuso e fin da tempi lontanissimi, ogni famiglia aveva il suo bel maiale da crescere. Spesso avere la possibilità di poter allevare il proprio animale faceva la differenza tra una vita dignitosa e quella tormentata dai morsi della fame.

In alcuni casi, quando le finanze del capofamiglia lo permettevano, l’animale veniva comprato ed affidato ad una famiglia bisognosa per l’allevamento. L’animale veniva alimentato a spese del proprietario con i prodotti di scarto, come bucce di patate o di frutta, sciacquatura dei piatti lavati con l’acqua della pasta insieme a ghiande, castagne e mele selvatiche.

Alla fine, giunto il  momento della maialatura, il proprietario del maiale pagava la famiglia che lo aveva allevato con una parte dei prodotti derivanti dalla maialatura; altre volte invece si pattuiva un accordo diverso: una famiglia comprava due maiali e li affidava entrambe ad un’altra famiglia, quest’ultima li cresceva entrambe dividendo le spese per l’alimentazione e alla fine ognuno macellava un animale.

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Ed era così che anche dalle travi dei solai delle case delle famiglie più povere – che non avrebbero potuto mai acquistare il maiale – pendevano salsicce, soppressate, ‘nduja, guanciale, pancette, lardo. Nei ripiani, invece, facevano bella mostra salaturi pieni di strutto, di cotenne (frittule) immerse nello strutto, di gelatina con testina e zampetti, di sfrizzoli. Del maiale non si buttava niente, anche con il sangue veniva preparata una crema a base di sangue, cioccolato ed uvetta passa: la nutella dell’epoca. Una parte veniva fatto coagulare, tagliato a pezzi e soffritto in padella con abbondante cipolla.

L’uccisione del maiale era un rito, una vera e propria festa che accomunava le famiglie e gli amici in un clima di solidarietà, in cui ci si aiutava uno con l’altro; nel paese, per tutto il tempo della maialatura che più o meno avveniva tra fine Dicembre e inizio Gennaio, era un tramestio, un andirivieni di pentoloni, tinozze, maijalle (contenitore di legno in cui veniva impastata la carne per le salsicce e soppressate).

Alla fine, la scorta di carne per tutto l’anno era assicurata e l’inverno faceva meno paura.
Ed è stata proprio questa attitudine molto diffusa ad allevare i maiali anche a livello casalingo, che ha consentito al maiale nero di Calabria, sicuramente più difficile da allevare a livello industriale, di giungere fino a noi. Fin da tempi lontanissimi, il maiale nero era molto apprezzato e – anche se allora non si era a conoscenza dell’esistenza e dell’importanza per la salute dei grassi insaturi – esso era ambito per la qualità migliore delle carni.

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Il temperamento di questo animale è assai diverso da quello dei comuni maiali: non sopporta di essere rinchiuso e chi lo alleva, quindi, è costretto a farlo in uno stato brado o semibrado. Di conseguenza, l’alimentazione è più spontanea. Questo comporta un’ attività sessuale del maschio più vigorosa e per la scrofa una maggiore capacità riproduttiva. L’effetto è una riproduzione più copiosa. La scrofa di maiale nero calabrese partorisce due volte l’anno ed ogni volta dà alla luce dai sette ai  nove piccoli. Le loro dimensioni sono sensibilmente inferiori rispetto a quelle dei comuni maialini, quindi lo sviluppo è più lento. Ci vogliono due anni per avere un animale pronto alla macellazione contro gli otto-nove mesi del maiale comune. Tutto questo però a beneficio di una crescita più naturale ed armonica che ha come risultato una carne più magra, gustosa e più  salutare. Oltre al colore, il maiale nero di Calabria presenta una caratteristica tutta sua che lo contraddistingue dalle altre razze nere: ai lati del collo pendono due “bargigli” formati dalla cotenna.

Per tutelare questa specie autoctona, che si è potuta preservare anche grazie all’orografia della regione, fatta di zone molto isolate, gli allevatori si sono organizzati in consorzi che ha dato vita ad un disciplinare per l’allevamento molto stringente. Vietate ad esempio nell’alimentazione del maiale nero di Calabria l’uso di qualsiasi farinaceo o di patate.

Grazie all’allevamento di questo animale pregiato, che ha più affinità col cinghiale che con il maiale comune, la regione Calabria tenta di rilanciare il proprio entroterra, che da sempre è stato economicamente più penalizzato rispetto alle zone costiere.
Gli allevamenti di maiale nero calabrese sono circa 50 in tutta la regione e – di questi – una trentina fanno parte del consorzio. Un periodo molto propizio questo per il ritorno all’allevamento e alla coltivazione di specie autoctone più in armonia, quindi, con il territorio e destinati a non configgere con esso.

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